Phishing, smishing e altre truffe bancarie: quando la banca deve risarcire il cliente?

Il phishing è una truffa informatica effettuata inviando una e-mail, apparentemente proveniente da un istituto di credito o da una società di commercio elettronico, in cui si invita il destinatario ad accedere al proprio account inserendo dati riservati quali numero di carta di credito e/o password di accesso al servizio di home banking, motivando tale richiesta con ragioni di ordine tecnico o di sicurezza.

Chi utilizza tecniche di phishing – che può avvenire anche mediante l’invio di SMS (c.d. smishing) ovvero l’effettuazione di telefonate da parte di falsi operatori (c.d. vishing) – mira ad ottenere, tramite artifici e raggiri, le credenziali di autenticazione necessarie ad accedere abusivamente a spazi informatici esclusivi del titolare (ad esempio relativi alla gestione dei conti correnti online) e a svolgere, senza autorizzazione, operazioni bancarie o finanziarie.

Ma cosa può fare il malcapitato che ha subito una truffa di questo tipo e si è visto sottrarre il proprio denaro?

Ai sensi dell’art. 7 e ss. del D.lgs. 11/2010, la banca o il prestatore di servizi di pagamento deve rimborsare al cliente le operazioni di pagamento non autorizzate, salvo che riesca a dimostrare il dolo o la colpa grave del cliente stesso.

Con riferimento poi alle carte di pagamento, la banca o il prestatore di servizi di pagamento deve monitorare le operazioni a rischio frode ed eventualmente bloccare le operazioni di pagamento sospette quando: 1) vengono effettuate sette o più richieste di pagamento nelle 24 ore per una stessa carta di pagamento; 2) una ovvero più richieste di pagamento nelle 24 ore esauriscano l’importo totale del plafond della carta di pagamento; 3) vengono effettuate due o più richieste di pagamento provenienti da Stati diversi, con la stessa carta, nell’arco di sessanta minuti.

In caso di negligenza della banca nell’effettuare il monitoraggio delle operazioni a rischio frode, la banca è sempre tenuta a risarcire il proprio cliente.

Dunque, chi ha subito una truffa di questo tipo anzitutto deve immediatamente rivolgersi alle forze dell’ordine per sporgere denuncia/querela e alla propria banca per segnalare l’accaduto e avanzare reclamo. Fatto ciò, qualora la banca non dovesse risarcire il danno nell’immediato, è opportuno rivolgersi ad un avvocato per agire di conseguenza. Non sempre occorre agire in giudizio: azionando sistemi di ADR specifici per il settore bancario è possibile ottenere il risarcimento in tempi brevi e con costi decisamente contenuti.

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Mutui a tasso variabile EURIBOR: possibile il rimborso degli interessi versati tra il 2005 e il 2008

Chi ha contratto un mutuo o un finanziamento a tasso variabile basato sull’Euribor tra il 29 settembre 2005 e il 30 maggio 2008 può avere diritto a un rimborso.

L’EURIBOR (tasso interbancario di offerta in euro) è il tasso di riferimento dei mutui a tasso variabile in Europa e viene calcolato tutti i giorni sulla base dei dati forniti da un gruppo di banche più rappresentative nel panorama creditizio europeo. Più precisamente l’Euribor è calcolato in base alle comunicazioni giornaliere, inviate dalle «banche del panel», delle quotazioni individuali dei tassi d’interesse ai quali ciascuna delle banche partecipanti ritiene che un’ipotetica banca primaria presterebbe fondi ad un’altra banca primaria all’interno della zona euro. Queste comunicazioni avvengono ogni giorno di negoziazione tra le 10.45 e le 11.00, ora di Bruxelles, a Thomson Reuters, l’agenzia incaricata di eseguire i calcoli per conto della Federazione bancaria europea .

La Commissione Europea Antitrust, con la decisione del 4/12/2013, ha accertato che, tra il 2005 e il 2008, alcune banche del panel avevano creato un cartello al fine di manipolare il tasso Euribor, allineando le proprie comunicazioni in modo da mantenere o indirizzare i tassi in una certa direzione.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 34889 del 13 dicembre 2023, ha sancito il principio secondo cui «l’accordo manipolativo del tasso Euribor accertato dalla Commissione europea con decisione del 4 dicembre 2013 produce la nullità dei contratti “a valle” che si richiamino per relationem al tasso manipolato». In forza di questo principio i debitori che hanno contratto mutui o finanziamenti a tasso variabile basato sull’Euribor tra il 29 settembre 2005 e il 30 maggio 2008 possono avere diritto a un rimborso.

La novità introdotta da questo provvedimento della Cassazione consiste nel fatto che il rimborso non riguarda solamente le banche che hanno partecipato attivamente alla manipolazione dell’Euribor, ma si estende a tutti i mutui, finanziamenti o contratti di leasing che hanno utilizzato questo indice come riferimento per il calcolo degli interessi. Il rimborso riguarda ovviamente le rate pagate nel periodo compreso tra il 29 settembre 2005 e il 30 maggio 2008.

Il cliente che, in quell’arco di tempo, ha pagato rate per mutui a tasso variabile calcolato su base Euribor, ha quindi diritto a richiedere la restituzione della differenza tra il tasso di interesse effettivamente applicato al suo mutuo e un tasso sostitutivo a norma dell’articolo 117 del Testo Unico Bancario.

La prescrizione è decennale e decorre dal pagamento dell’ultima rata di mutuo. Questo significa che se il mutuo è ancora in essere non sussiste prescrizione; se invece il mutuo è stato estinto o surrogato, il diritto ad ottenere il risarcimento si prescrive dopo dieci anni dall’estinzione o dalla surroga.

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Niente revoca della patente se a circolare con un mezzo sottoposto a sequestro amministrativo è un soggetto diverso dal custode

Il Giudice di Pace di Catania, con sentenza dell’ 8 febbraio 2024, ha annullato la sanzione accessoria della revoca della patente, disposta con un verbale elevato per violazione dell’art. 213, comma 8, C.d.S., nei confronti del custode di un ciclomotore, sottoposto a sequestro amministrativo, che aveva consentito al figlio di circolare con detto veicolo.

Il nostro studio legale ha impugnato il verbale rilevando come la Circolare emanata in data 21/01/2019 dal Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione Centrale per la Polizia stradale, ferroviaria, delle comunicazioni e per i reparti speciali della Polizia di Stato, contrassegnata con prot. n. 300/A/559/19/101/20/21/4, avesse limitato la sanzione della revoca della patente alla sola ipotesi in cui «…sia lo stesso custode a circolare abusivamente con veicolo sottoposto a sequestro». Con argomentazioni logiche e condivisibili, il Ministero, difatti, ha chiarito che quando il conducente del veicolo sequestrato sia un soggetto terzo «…non si ravvisano gli estremi dell’abuso del titolo di guida che giustificano l’applicazione di una sanzione accessoria riguardante la patente di guida».

Nel caso di specie, il soggetto sorpreso a circolare con il motoveicolo sequestrato non era il custode, ma il figlio e, pertanto, all’opponente non poteva addebitarsi una condotta abusiva del titolo di guida.

Abbiamo anche evidenziato che l’art. 213, comma 8, C.d.S. è stato oggetto di intervento da parte della Corte Costituzionale con la Sentenza n. 246 del 09/12/2022, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 213, comma 8, C.d.S. nella parte in cui dispone che «si applica», anziché «può essere applicata», la sanzione accessoria della revoca della patente. Il rigore previsto dal testo originario della disposizione è stato ritenuto lesivo dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di necessaria proporzionalità della sanzione amministrativa rispetto all’illecito commesso. L’automatismo prescritto, difatti, precludeva al Prefetto e al Giudice, in sede di opposizione, di valutare la necessità della revoca della patente, tenendo conto delle complessive circostanze peculiari del caso concreto. I criteri di valutazione, come individuati dalla Consulta, sono la gravità della violazione dei doveri di custodia e le ripercussioni che la revoca della patente ha su aspetti essenziali della vita, nella sua quotidianità, e del lavoro.

Nel caso di specie, la disposta revoca della patente non appariva proporzionata al presunto illecito contestato, considerato che il figlio si era posto alla guida del ciclomotore sotto sequestro senza l’autorizzazione del padre e che la revoca della patente avrebbe avuto gravi ripercussioni sulla quotidianità dell’opponente.

Il Giudice di Pace di Catania ha quindi accolto il ricorso e annullato la sanzione accessoria della revoca della patente disposta nei confronti del custode del mezzo.

Assegno divorzile: conta anche la convivenza prematrimoniale

L’assegno di mantenimento è una somma definita durante il processo di separazione, destinata a supportare il coniuge che si trova in una posizione economica meno favorevole e che non dispone di un reddito proprio. Spesso, tale assegno è destinato alla moglie se questa non lavora o se il suo reddito è notevolmente inferiore a quello del marito.
Occorre fare una distinzione tra l’assegno di mantenimento, che viene riconosciuto durante la separazione ed è in proporzione al tenore di vita matrimoniale, e l’assegno divorzile che viene attribuito in seguito alla pronuncia della sentenza di divorzio, quando la coppia si scioglie in modo definitivo e cessano gli effetti civili del matrimonio, però restano alcuni obblighi di solidarietà e assistenza tra i coniugi.
Per quanto riguarda l’assegno divorzile, i criteri utilizzati per la sua fissazione non si basano più sul mantenimento del precedente tenore di vita. Attraverso una importante sentenza delle Sezioni Unite del 2018 (Cass. S.U. sent. n. 18287/2018), il vecchio metodo del mantenimento del tenore di vita precedente, che in molti casi, dava la possibilità di procurarsi una rendita parassitaria a carico dell’ex coniuge più “ricco”, è stato superato. Adesso, secondo la Suprema Corte, l’assegno di divorzio deve avere funzione assistenziale, compensativa e perequativa delle differenze di reddito e patrimoniali tra i due ex coniugi.
Altra importante sentenza riguarda la convivenza prima del matrimonio: la Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 35385/2023) si è recentemente pronunciata sulla questione con riferimento all’assegno di divorzio, stabilendo che, nel valutare l’importo di quest’ultimo e il diritto del coniuge richiedente a percepirlo, il giudice deve considerare anche il periodo di convivenza della coppia prima del matrimonio. La Suprema Corte, ribadendo lo scopo compensativo e perequativo dell’assegno di divorzio, invita a esaminare i casi in cui il matrimonio sia stato preceduto da una convivenza caratterizzata da stabilità e continuità, basata su un progetto di vita comune che include contribuzioni economiche reciproche.
Nella valutazione dell’importo dell’assegno e del diritto del richiedente a percepirlo, il giudice deve esaminare il contributo fornito dallo stesso alla gestione della vita familiare e alla creazione del patrimonio sia comune che individuale dei coniugi. È importante considerare, durante il periodo di convivenza prematrimoniale, le decisioni prese insieme dalla coppia che hanno influenzato la vita coniugale e che possono essere collegate a sacrifici o rinunce, specialmente professionali o lavorativi, da parte del coniuge economicamente più debole, il quale si trova incapace di mantenere un adeguato tenore di vita dopo il divorzio.
La suddetta decisione, pur essendo esplicitamente riferita all’assegno divorzile, non mancherà di incidere, in futuro, anche sulle decisioni riguardanti quello di mantenimento.

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Maltrattamenti in famiglia: abitualità dei comportamenti violenti e regime di vita vessatorio.

Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsto dall’art. 572 c.p., punisce le condotte reiterate nel tempo, che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti, fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di una persona della famiglia, di un convivente, o di una persona che sia sottoposta all’autorità del soggetto agente o sia a lui affidata.
La fattispecie in esame è il risultato di diversi interventi normativi succedutisi nel tempo, da ultima la l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, che, nell’ottica di contrastare il verificarsi di episodi di violenza domestica, ne ha inasprito il quadro sanzionatorio, sia con riferimento alla fattispecie base di cui al comma 1, sia prevedendo, al comma 2, nuove circostanze aggravanti. Con la stessa legge il legislatore ha, altresì, previsto, all’ultimo comma, che il minore che assista ai maltrattamenti sia considerato persona offesa dal reato.
Il delitto di maltrattamenti è un reato abituale, essendo necessario ripetersi nel tempo di vari comportamenti vessatori i quali, considerati singolarmente, potrebbero anche non essere punibili, e che, invece, acquistano rilevanza penale proprio per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Uno degli elementi essenziali del reato è quindi l’abituale reiterazione di atti vessatori o violenti, i quali devono essere sorretti dalla volontà di sottoporre la persona offesa ad una serie di sofferenze fisiche e morali; l’esistenza di tale legame comporta che ciascuna condotta successiva di maltrattamento vada a riannodarsi alle precedenti, saldandosi idealmente alle stesse e andando a costituire, in tal modo, un illecito di carattere strutturalmente unitario (Cass. pen., sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961). Non integra invece il delitto di maltrattamenti in famiglia, la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona che non risultino però inquadrabili in una cornice unitaria, connotata dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di vita oggettivamente vessatorio (Cass. pen., sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037).
E’ necessario, dunque, che le condotte non siano meramente sporadiche, piuttosto che siano la manifestazione di una persistente attività vessatoria, tale da generare un regime di vita persecutorio ed umiliante (Cass. pen. Sez. VI, n. 833/2022).
La giurisprudenza di legittimità ha anche affermato come sia erronea l’equiparazione, tra reato abituale e reato permanente, al fine di individuare il luogo di consumazione del reato e, quindi, il giudice competente. Ciò in quanto nel reato permanente l’azione è unica ed assume una autonoma portata antigiuridica, fin dai primo atto che ne segna l’esecuzione; tale azione, protraendosi nel tempo, assume una connotazione di permanenza. Nel caso invece di un reato abituale, si è in presenza di singole condotte, singolarmente non idonee ad integrare quella specifica figura tipica, che perdono però la loro individualità (quali percosse, minacce, o quali condotte penalmente irrilevanti), assumendo infine una differente configurazione giuridica, a causa proprio del legame rappresentato dalla reiterazione. Qui è del tutto irrilevante, sotto il profilo giuridico, individuare il momento iniziale della consumazione, in relazione ad una condotta di cui non può prevedersi ii successivo inquadramento; il luogo del commesso reato, in punto di determinazione della competenza, sarà quindi quello in cui l’azione appaia complessivamente riconoscibile e qualificabile alla stregua di un maltrattamento (Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900).

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Stupefacenti: la Corte Costituzionale interviene sulla pena minima

La Corte costituzionale, con sentenza n. 40 depositata l’8 marzo 2019 (relatrice Marta Cartabia), ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei. Rimane inalterata la misura massima della pena, fissata dal legislatore in venti anni di reclusione, applicabile ai fatti più gravi. In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione). Leggi tutto

LO STUDIO

Lo Studio De Jure Avvocati è uno studio legale che opera prevalentemente in Sicilia ma con uno sguardo attento a tutto il territorio nazionale. Un team di avvocati in grado di fornire ai propri clienti, con approccio distintivo e innovativo, consulenza e assistenza legale di alto profilo in ogni settore del diritto.
Lo studio propone un’offerta di servizi legali di qualità e “su misura” per il cliente, così come una comunicazione tempestiva ed efficace, unite alla massima ottimizzazione dei costi, nella convinzione che ogni cliente e ogni situazione necessitino di un’attenzione ed una dedizione particolare, ritagliate sulle specifiche esigenze e necessità del cliente.

Settori di Attività

Lo Studio De Jure opera nel campo del diritto civile e penale e offre una completa tutela ed assistenza nei due principali macro-settori del mondo giuridico: impresa e famiglia. In relazione ai diritti della persona, della famiglia, dei minori e delle successioni, pone al centro dell’attenzione le specifiche esigenze giuridiche, psicologiche e relazionali di ciascun Cliente.