Maltrattamenti in famiglia: abitualità dei comportamenti violenti e regime di vita vessatorio.

Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsto dall’art. 572 c.p., punisce le condotte reiterate nel tempo, che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti, fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di una persona della famiglia, di un convivente, o di una persona che sia sottoposta all’autorità del soggetto agente o sia a lui affidata.
La fattispecie in esame è il risultato di diversi interventi normativi succedutisi nel tempo, da ultima la l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, che, nell’ottica di contrastare il verificarsi di episodi di violenza domestica, ne ha inasprito il quadro sanzionatorio, sia con riferimento alla fattispecie base di cui al comma 1, sia prevedendo, al comma 2, nuove circostanze aggravanti. Con la stessa legge il legislatore ha, altresì, previsto, all’ultimo comma, che il minore che assista ai maltrattamenti sia considerato persona offesa dal reato.
Il delitto di maltrattamenti è un reato abituale, essendo necessario ripetersi nel tempo di vari comportamenti vessatori i quali, considerati singolarmente, potrebbero anche non essere punibili, e che, invece, acquistano rilevanza penale proprio per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Uno degli elementi essenziali del reato è quindi l’abituale reiterazione di atti vessatori o violenti, i quali devono essere sorretti dalla volontà di sottoporre la persona offesa ad una serie di sofferenze fisiche e morali; l’esistenza di tale legame comporta che ciascuna condotta successiva di maltrattamento vada a riannodarsi alle precedenti, saldandosi idealmente alle stesse e andando a costituire, in tal modo, un illecito di carattere strutturalmente unitario (Cass. pen., sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961). Non integra invece il delitto di maltrattamenti in famiglia, la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona che non risultino però inquadrabili in una cornice unitaria, connotata dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di vita oggettivamente vessatorio (Cass. pen., sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 45037).
E’ necessario, dunque, che le condotte non siano meramente sporadiche, piuttosto che siano la manifestazione di una persistente attività vessatoria, tale da generare un regime di vita persecutorio ed umiliante (Cass. pen. Sez. VI, n. 833/2022).
La giurisprudenza di legittimità ha anche affermato come sia erronea l’equiparazione, tra reato abituale e reato permanente, al fine di individuare il luogo di consumazione del reato e, quindi, il giudice competente. Ciò in quanto nel reato permanente l’azione è unica ed assume una autonoma portata antigiuridica, fin dai primo atto che ne segna l’esecuzione; tale azione, protraendosi nel tempo, assume una connotazione di permanenza. Nel caso invece di un reato abituale, si è in presenza di singole condotte, singolarmente non idonee ad integrare quella specifica figura tipica, che perdono però la loro individualità (quali percosse, minacce, o quali condotte penalmente irrilevanti), assumendo infine una differente configurazione giuridica, a causa proprio del legame rappresentato dalla reiterazione. Qui è del tutto irrilevante, sotto il profilo giuridico, individuare il momento iniziale della consumazione, in relazione ad una condotta di cui non può prevedersi ii successivo inquadramento; il luogo del commesso reato, in punto di determinazione della competenza, sarà quindi quello in cui l’azione appaia complessivamente riconoscibile e qualificabile alla stregua di un maltrattamento (Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52900).

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